martedì 25 ottobre 2011

Card. Ratzinger: "Agostino insegna che la santità e la rettitudine cristiane non consistono in una qualche sovrumana grandezza o in qualche talento superiore. Se fosse così, il cristianesimo diventerebbe una religione per alcuni eroi o per gruppi di eletti, per monaci che hanno il tempo di farlo e le forze per farlo" (1998)

Su segnalazione della nostra Gemma leggiamo:

Il potere e la grazia

La presentazione del libro di 30Giorni sull’attualità di sant’Agostino con il cardinale Joseph Ratzinger

Il testo che segue è una nostra trascrizione degli interventi che conserva l’immediatezza e la vivacità di un parlato

Sopra, Giulio Andreotti introduce la presentazione del libro Il potere e la grazia. Attualità di sant’Agostino fatta dal cardinale Joseph Ratzinger, il 21 settembre 1998. Nella pagina a sinistra, l’affresco absidale (XII secolo) dell’antica chiesa di San Gregorio Nazianzeno, in cui è raffigurato Gesù tra san Gregorio Nazianzeno e san Quirino (sullo sfondo della stessa pagina, l’incipit del De civitate Dei di Agostino in un manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca Civica di Rimini). La chiesa, sorta su una costruzione del IV secolo, è inglobata nel chiostro dell’ex monastero di Santa Maria della Concezione in Campo Marzio, oggi di proprietà della Camera dei deputati. All’interno del chiostro si trova anche la Sala del Cenacolo, oggi adibita a sala conferenze.

GIULIO ANDREOTTI:

Eminenza, nonostante io da sette anni appartenga all’altro ramo del Parlamento, sono comunque abbastanza qualificato, avendo vissuto per quarantacinque anni qui alla Camera dei deputati, per darle il benvenuto e per ringraziare lei e tutti gli ospiti di aver accettato questo appuntamento singolare. Io devo solo introdurre.
Certo che in questo luogo, che è un compound della Camera dei deputati, siamo quanto mai nella città terrena. In effetti, l’ambiente è singolare, tanto singolare che quando si ospitano delle delegazioni straniere, e in modo particolare delle delegazioni di Paesi non classificati come cristiani, si nota in loro evidente la meraviglia di fronte a questi quadri, e allora dobbiamo spiegare loro la storia... Essendo oggi il 21 settembre, forse possiamo ricordare come proprio un certo numero di anni fa, all’indomani del 20 settembre di Porta Pia, non proprio in questo luogo (dov’era il convento), ma nel palazzo di Montecitorio, che era sede del Tribunale, si svolgeva un’attività piuttosto singolare. Se la storia non ci riferisce male, Montecitorio fu l’unico palazzo che fu preso d’assalto. Perché era il palazzo del Tribunale e, quindi – non certo a causa di una lotta fra clericalismo e anticlericalismo –, si volevano far sparire gli archivi. Perché ricordo questo? Perché in questo volume, nell’ultimo capitolo – in un certo senso un po’ ampliando l’orizzonte rispetto allo schema agostiniano del resto del libro – si riporta il saluto che il sindaco di Roma dette al Santo Padre quando era in visita al Campidoglio. Noi che facciamo vita politica qui in Parlamento, certo sentiamo molte volte delle difficoltà. Però ringraziamo Dio di essere nati in un periodo in cui il rapporto tra mondo politico e mondo religioso è stato possibile senza difficoltà e senza contrasti. La Questione romana, del resto, anche prima della sua effettiva conclusione, da alcuni spiriti molto elevati era stata vista come superata. Poi abbiamo avuto il famoso discorso di Paolo VI (che già quando era cardinale aveva affrontato il tema) in cui disse che era stata una benedizione per la Chiesa essere liberata dal potere temporale. Quindi, tutto un po’ si ricollega. Vorrei soltanto dire che questo angolo dell’insieme della Camera dei deputati è particolarmente caratterizzato da una attività religiosa: nel chiostro, infatti, c’è la piccola chiesa di San Gregorio Nazianzeno, dove monsignor Fisichella (siamo tutti lietissimi che rimanga dopo la sua nomina a vescovo ausiliare) quattro giorni alla settimana dice la sua messa. Anche questo ha un significato.
L’ultima cosa che vorrei segnalare è questa: rispetto a quasi tutti i Padri della Chiesa, sant’Agostino è particolarmente affascinante oltre che per quello che ha scritto, anche per la sua figura umana. Andando indietro con la memoria e pensando a uno dei miei anni di scuola, ricordo il successo che riscosse la scelta delle Confessioni da parte del professore di religione, come libro su cui egli ci istruiva. Cominciai allora a capire un po’. Non dico di aver poi compreso tutto di questa figura che suscita interesse anche solo per la sua storia personale (si pensi al suo itinerario: la partenza dall’Africa, l’arrivo a Roma, il non trovare qui un ambiente con una sua scuola molto recettiva, il viaggio a Milano voluto dalla Provvidenza, il suo rapporto con sant’Ambrogio, il suo ritorno in patria...). Mi ha colpito una cosa leggendo l’Enciclopedia cattolica: laddove si parla di sant’Agostino (vi si dedicano moltissime pagine e mi sembra anche con studio molto accurato), si dice testualmente (e per questo forse, se fosse esistito ancora, il Sant’Uffizio sarebbe intervenuto) che, quando andò a Cartagine, questo giovane diciassettenne «si piegava a una certa regola, unendosi senza matrimonio, con una grande fedeltà, alla donna madre del suo figlio». Certamente non è questa la cosa più importante, però mi sembra significativo il fatto che il cammino della grazia in sant’Agostino ha inizio, anche se non proprio dal gradino più basso – c’è di peggio –, da qualche cosa di completamente lontano e arriva a quella che può essere considerata una apoteosi, sia di cultura sia di spirito religioso. E ci arriva, non a caso, passando per Roma, passando per Milano e tornando poi in quell’Africa dove, con una certa mestizia, noi oggi vediamo, in Cartagine, cose stupende dal punto di vista archeologico ma non quelle impronte che certamente nella storia avevano avuto un grande significato. D’altra parte, io ritengo che proprio questa grande umanità di sant’Agostino ci deve abituare a non essere mai pessimisti. I tempi della storia qualche volta sono molto più lunghi di quelli che ci aspettiamo. Anche i tempi della cultura sono tempi non misurabili con criteri validi per altre realtà. Comunque, io credo che il fermarsi per qualche momento su sant’Agostino faccia del bene a tutti noi.

Le rinnovo, eminenza, la profonda gratitudine per aver accettato di presentare questa nostra pubblicazione.

JOSEPH RATZINGER:

Signor senatore, eccellenze, signore e signori, innanzitutto devo un po’ precisare, o addirittura correggere, il testo dell’invito: infatti, a causa dei miei tanti impegni nei mesi passati, non ho trovato il tempo per una lettura approfondita e seria di questo libro. E perciò non mi trovo sufficientemente preparato per una vera presentazione. Nonostante questo, ho voluto dire sì all’invito semplicemente a motivo della mia amicizia e ammirazione per sant’Agostino. Poi, perché mi arreca realmente gioia il fatto che una rivista di informazione come 30Giorni abbia presentato per mesi al grande pubblico questa figura in un dialogo col nostro tempo. Un dialogo che realmente evidenzia la profondità e l’attualità del suo pensiero. Questo fatto, che sant’Agostino diventa accessibile alle nostre domande, e nella nostra attualità, è il mio motivo di gioia e quindi ho detto un sì un po’ paradossale, forse non giustificato, in una situazione in cui forse avrei dovuto dire no.
Quindi, devo chiedere scusa se mi presento abbastanza impreparato e incapace di presentare questo libro così da mostrare il suo reale valore, il suo contenuto profondo.
Mi sento in grado di fare alcuni accenni ai due elementi che a me, a una lettura superficiale, appaiono come i più importanti e che si vedono presenti nel titolo: il potere e la grazia. Quando cinquant’anni fa ho cominciato a dialogare con sant’Agostino, l’ho trovato quasi subito come un mio contemporaneo. Un uomo che non parla da lontano e da un contesto totalmente diverso dal nostro, ma che, avendo anzi vissuto in un contesto molto simile al nostro, risponde, naturalmente alla sua maniera, a problemi che sono proprio anche problemi nostri.
Il primo problema nascosto sotto la parola “potere” è quello della cosiddetta teologia politica, della relazione tra mondo politico e mondo religioso.
Il senatore Andreotti ha già accennato come anche questo contesto ci faccia molto pensare sulla relazione tra i due mondi. Agostino ha vissuto in un Impero giuridicamente cristiano, dove il cristianesimo era religione di Stato anche se la maggioranza dei cittadini ancora non erano cristiani. L’imperatore era cristiano e si considerava il protettore della Chiesa, anzi la personificazione della Chiesa, che era per lui quasi identificata con l’Impero. E in uno Stato in cui il cristianesimo è religione ufficiale, intrecciandosi con i gradi più alti dello Stato, è grande il pericolo che anche il teologo e il vescovo perdano di vista la differenza tra le due cose e si arrivi a una politicizzazione della fede incompatibile sia con la sua libertà sia anche con la sua universalità. In realtà, nel periodo e nella generazione precedenti a sant’Agostino, Eusebio di Cesarea aveva creato una teologia politica in questo senso, nella quale l’Impero e la Chiesa quasi si identificano. L’Impero diventa il modo in cui Dio realizza il suo progetto per la storia. Il problema di quest’identificazione si è rivelato nella crisi ariana, che non è solo una crisi di insegnamento cristologico, di fede cristologica, ma è soprattutto una crisi del problema della giusta relazione tra Stato e Chiesa, tra politica e fede. Pensiamo soltanto all’episodio relativo al Sinodo di Milano del 355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell’imperatore che voleva che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non compatibile con le leggi della Chiesa, l’imperatore Costanzo risponde: «La legge della Chiesa sono io». La fede è divenuta, quindi, una funzione dell’Impero. Eusebio è, con pochi altri, una delle grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua universalità. Questo, una generazione dopo, nella vita di sant’Agostino, appare già più difficile perché la fede nicena nel frattempo è accettata anche dagli imperatori. Quindi, non esistendo più questi conflitti, si potrebbe facilmente essere tentati di entrare in questa identificazione, arrivando così a un’inculturazione della fede nella quale fede e cultura si identificano in un modo inseparabile, e la fede perde così la sua universalità sia diacronica che sincronica. La fede non è, cioè, più in grado di comunicarsi ad altri mondi di cultura, né ad altri tempi con altre culture. Sant’Agostino era, in questa grande tentazione, la figura che ha difeso la differenza essenziale che, anche in situazioni privilegiate di quasi identità della popolazione, non può mai scomparire. Certamente egli fu aiutato dal fatto che nell’anno 410 i Goti conquistarono Roma, la saccheggiarono, e i pagani reagirono dicendo: «Ecco, questo è successo adesso con il cristianesimo. Quando c’erano ancora gli dèi della patria, Roma era difesa, era la capitale del mondo. Adesso avete espulso gli dèi, e san Pietro e san Paolo, i vostri patroni, non sono in grado di difendere la città. Vediamo che bisogna tornare agli dèi». E così i pagani si fanno (giustamente dal loro punto di vista) propagatori di una teologia politica in cui gli dèi sono in funzione dello Stato e lo Stato è in funzione delle divinità. Proprio in questa situazione di profonda crisi spirituale, sant’Agostino capisce e vede che l’identificazione è una caratteristica della religione pagana, in cui le divinità sono autoctone, sono le divinità parziali di questa realtà. Mentre una fede che crede nell’unico Dio, nel Dio di tutti i popoli e di tutte le culture, non può conoscere questa identificazione. E così insiste sul fatto che Chiesa e Stato non possono confondersi. La Chiesa in tutta la sua fragilità, in tutto il suo inserimento nelle cose umane di un determinato tempo, anche nei peccati di un certo tempo, tuttavia è una realtà diversa, un segno di una nuova società futura che adesso non è Stato, ma che si annuncia, tramite la Chiesa, per il futuro e muove la storia verso il futuro. Mentre lo Stato rimane lo Stato del presente e la sua funzione è distinta dalla Chiesa.
Non vorrei adesso approfondire questo, ma mi sembra che il grande merito di sant’Agostino sia di aver creato questa filosofia, questa teologia della diversità delle funzioni, nella responsabilità comune guidata dai valori che possono costruire una società giusta. Sappiamo bene quanto fosse difficile per i contemporanei di sant’Agostino comprendere questa distinzione. Già il suo amico Orosio, nel suo libro sulla storia, sulla città di Dio, cade più o meno nella identificazione. Poi, il Medioevo ha creato un agostinismo politico che era un malinteso del vero agostinismo. Ma, con le letture approfondite, riappare la grandezza della figura di sant’Agostino. E penso che una filosofia politica e una vera ecclesiologia, una fede nell’unico Dio che è Dio di tutti, la ricerca di una vera universalità della fede che si esprime in tutte le culture, non identificandosi mai con una sola di esse, possano anche oggi imparare molto dal dialogo con sant’Agostino.

Secondo punto: il titolo del libro parla del potere e parla della grazia. Come sappiamo, nella seconda e ultima tappa della vita di sant’Agostino, è divenuto questo il suo grande tema, mentre nel dibattito sia con la reazione pagana sia con il donatismo ha visto soprattutto la necessità di riflettere il tema del potere e della diversità delle sfere. Entra poi, costretto dalla situazione, in un dibattito con certe tendenze del monachesimo del suo tempo, con un moralismo, la cui figura eccellente era Pelagio, in cui il monachesimo, che inizialmente era proprio vita dell’adorazione e fuga saeculi, come si diceva, diventa un moralismo nel quale si costruisce, con le forze della moralità umana, la nuova società.
E la tentazione di trasformare il cristianesimo in un moralismo e di concentrare tutto sull’azione morale dell’uomo è grande in tutti i tempi. Perché l’uomo vede soprattutto sé stesso. Dio rimane invisibile, intoccabile, e quindi l’uomo si appoggia soprattutto sulla sua propria azione. Ma se Dio non agisce, se Dio non è un vero soggetto agente nella storia che entra anche nella mia vita personale, allora che cosa vuol dire redenzione? Che valore ha la nostra relazione con Cristo e così col Dio trinitario? Mi sembra che la tentazione di ridurre il cristianesimo a un moralismo è grandissima anche nel nostro tempo, e sono molto grato che 30Giorni sottolinei spesso questo problema. Perché noi viviamo un po’ tutti in un’atmosfera di deismo. La nostra idea delle leggi naturali non ci permette più facilmente di pensare a un’azione di Dio nel nostro mondo. Sembra che non ci sia spazio perché possa agire Dio stesso nella storia umana e nella mia vita. E così abbiamo l’idea che Dio non può più entrare in questo cosmo, fatto e chiuso contro di lui. Che cosa rimane? La nostra azione. E dobbiamo trasformare noi il mondo, dobbiamo noi creare la redenzione, dobbiamo noi creare il mondo migliore, un mondo nuovo. E se si pensa così, ecco che il cristianesimo è morto, il linguaggio religioso diventa un linguaggio puramente simbolico e vuoto. E 30Giorni ha il grande merito di aver mostrato come in preghiere moderne, anche nelle traduzioni delle preghiere liturgiche, c’è questa tentazione di lasciar cadere la speranza di un intervento di Dio – sembra troppo ingenuo sperare questo – che trasforma tutto in appelli al nostro agire. Molto comprensibile. Ma allora ci manca proprio il vero dialogo, ci manca la forza dell’amore eterno che è la vera forza che può rispondere alle sfide della nostra vita e della politica. Agostino ha conosciuto questa tendenza. Ha risposto fortemente e, essendo il dottore della grazia, ci invita a seguirlo e ad affidarci con la nostra azione alla comunione con l’azione di Dio, a credere che l’amore è un potere – un potere anche nel mondo di oggi – e che l’amore ha la capacità di trasformare il mondo e provoca il nostro amore, e in questa comunione delle due volontà, per così dire, si può andare avanti.
Quindi, con altre parole, Agostino insegna che la santità e la rettitudine cristiane non consistono in una qualche sovrumana grandezza o in qualche talento superiore. Se fosse così, il cristianesimo diventerebbe una religione per alcuni eroi o per gruppi di eletti, per monaci che hanno il tempo di farlo e le forze per farlo.
Era questa la visione della filosofia della tarda antichità, per cui i filosofi hanno la capacità di elevarsi fino alla divinità, mentre la gente semplice deve accontentarsi e vivere a un livello inferiore. Agostino dice no, dice che la fede cristiana è proprio la religione dei semplici, il Signore si comunica ai semplici. Quindi non è una cosa sovrumana, ma si realizza nell’obbedienza che si pone a disposizione là dove Dio chiama, quella stessa obbedienza che non si affida al proprio potere o alla propria grandezza, ma si fonda sulla grandezza del Dio di Gesù Cristo ed è consapevole che tale grandezza divina si può trovare proprio nel servire e nel perdersi, nel lasciarsi guidare dalla verità e nel lasciarsi muovere dall’amore.
Un’ultima osservazione. Il titolo mi ispira ancora un ultimissimo pensierino. Il potere e la grazia: potrebbe essere tradotto, o almeno vi potrebbe essere associato anche un altro termine: il visibile e l’invisibile. Nei nostri tempi, la sollecitazione del visibile, del controllabile, è cresciuta ancora di più, al punto che oggi ci si crede più emancipati, più assennati perché prendiamo sul serio solo ciò che è visibile e ciò che possiamo dominare. In realtà, ciò diminuisce la capacità visiva della nostra mente e del nostro cuore. Non riusciamo più a guardare l’invisibile e l’eterno, senza il quale in realtà tutto il visibile non potrebbe sussistere ed esistere.
Per concludere, Agostino è attuale anche per questo. Perché la sua figura è un’esortazione a fidarci dell’invisibile, a riconoscere ciò che veramente è importante e determinante per la nostra vita. Grazie.

GIULIO ANDREOTTI:

Ora il breve intervento di tre degli autori.

MASSIMO BORGHESI:

Brevemente richiamo i contenuti del volume e il senso di questa pubblicazione, a partire innanzitutto dal titolo, sul quale anche sua eminenza si è soffermato. Esso ricorda Il potere e la gloria di Graham Greene. Ma un titolo analogo reca anche l’opera di Reinhold Schneider, non tradotta in italiano, Macht und Gnade (Potere e grazia). Il volume che presentiamo costituisce la conclusione di un iter concettuale. Ha un suo significato nella misura in cui raccoglie una riflessione che non è da oggi, ma proviene da lontano. Sarebbe interessante, da questo punto di vista, ripercorrere gli ultimi anni del settimanale Il Sabato per osservare una continuità di riflessione con 30Giorni. Non a caso alcuni articoli raccolti nel volume provengono proprio da Il Sabato. Ebbene, Il Sabato, alla fine degli anni Ottanta, aveva sviluppato una critica puntuale alla priorità accordata da ampi settori della Chiesa alla “questione etica” totalmente incentrata sulla “crisi” e sulla “restaurazione” dei valori. Fu allora utilizzato il termine “pelagianesimo” per indicare l’ideologia moralistica che soggiaceva alla prassi ecclesiale. In fondo fu Il Sabato che risollevò il nome di Pelagio, autore allora per lo più sconosciuto al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori. Si voleva con ciò richiamare l’urgenza che la Chiesa non si riducesse a essere una sorta di agenzia etica del mondo in crisi, ma riscoprisse, più profondamente, la propria missione e il proprio significato nel mondo contemporaneo. In fondo, la Chiesa come agenzia etica tendeva a far propria l’idea della “riforma intellettuale e morale” nei termini in cui ne parlava Antonio Gramsci. L’intento di fondo era dato dal problema dell’egemonia, una egemonia “cattolica” da riconquistare proprio sul terreno della moralità e dei costumi. Ricordo come, in quegli anni, una critica del pelagianesimo da sinistra fosse contenuta negli scritti postumi di Claudio Napoleoni Cercate ancora. Lettere sulla laicità. Ebbene, da Pelagio, per una conseguenza quasi necessaria, si era rimandati al suo interprete e critico per eccellenza: Agostino. Non credo di sbagliare osservando come, alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, Agostino nell’ambito culturale cattolico fosse pressoché ignorato. Era conosciuto, certo, l’autore delle Confessioni. Ma l’Agostino teologo della grazia nonché il grande teorico della Città di Dio, cioè di una riflessione storico-politica a partire dal cristianesimo, era totalmente dimenticato anche nell’ambito più ristretto degli studi.
Cosa significava e cosa significa Agostino nei saggi raccolti nel volume? Innanzitutto vuol dire riaccedere a un’ottica “premedievale”, a un’ottica cristiana che riflette sul mondo prima del Medioevo, prima cioè di una “cristianità stabilita”. Quindi un cristianesimo che ancora si paragona con il paganesimo. Tutto questo, è inutile dire, richiama profondamente la situazione contemporanea. Anche noi oggi siamo in una prospettiva per tanti aspetti analoga e simile a quella del cristianesimo dei primi secoli.
In secondo luogo Agostino richiama una posizione realistica, capace di un’analisi dura e disincantata del potere, delle leve e dei meccanismi del potere, di come il cristiano debba rapportarsi ad esso. Ci sono nel volume alcuni saggi di Roberto Esposito e di Giacomo B. Contri molto interessanti in proposito. Concezione realistica epperò, al contempo, non assolutistica ma tollerante. Né lo Stato deve prevaricare sulla Chiesa né questa deve identificarsi con quello. Gran parte delle interviste a padre Nello Cipriani ruotano intorno al tema delle “leggi imperfette”, delle leggi, cioè, non totalmente conformi al diritto naturale. Nella concezione agostiniana la Chiesa deve tollerare le cosiddette leggi imperfette nella misura in cui concorrono a consentire quella pace sociale da cui essa stessa trae sicuri benefici. In tal modo la riflessione storica di Agostino si colloca tra Origene ed Eusebio di Cesarea. In proposito, uno dei testi più citati nel libro è L’unità delle nazioni, del cardinale Ratzinger, uno studio del 1971 dedicato al paragone tra Agostino e Origene. Origene, a partire da un cristianesimo tendenzialmente gnostico-rivoluzionario, tende a delegittimare gli ordinamenti dello Stato nella misura in cui non sono conformi alla morale cristiana. Su un versante opposto si colloca, invece, la posizione di Eusebio di Cesarea, sul quale sono da vedere i penetranti rilievi di padre Raffaele Farina, per il quale dopo Costantino c’è ormai perfetta identità tra cristianesimo e Impero romano. Tra queste due posizioni emerge la posizione di Agostino che non ha come preoccupazione la cristianizzazione dello Stato. Anche quando lo Stato sia retto da un imperatore cristiano, esso rimane Stato “terreno”, né altro può diventare.
Terzo rilievo: come è possibile il realismo agostiniano? Qual è il punto di vista che consente ad Agostino di guardare al potere in modo così obiettivo e disincantato? Ciò è possibile perché egli giudica il potere a partire da un punto a esso esterno. Per lui infatti le “città” sono due. Questa è la grande intuizione agostiniana, che, smarrita nel pensiero politico medievale (e su ciò si vedano le puntuali osservazioni di Elvio Ancona), si oppone all’utopia moderna, sia essa laica o cristiana, per cui la città è una e a essa occorre dedicare ogni energia per renderla perfetta. Ebbene, per Agostino le città sono due e non possono essere identificate. E, tuttavia, sono perplexae, sono mescolate sino alla fine del mondo. In tal modo alcuni della città del mondo si troveranno in paradiso mentre altri, della città di Dio, si perderanno.
Quarto elemento di interesse: il rapporto tra grazia e libertà. Se le città sono perplexae, la dinamica di accadimento del cristianesimo non può che svolgersi mediante incontri umani significativi, vale a dire nel rapporto tra grazia e libertà. Ciò va al di là e scompagina appartenenze ideologiche, politiche, settoriali. Rilevante in un contesto come quello attuale è la possibilità di incontrare uomini, persone, nel loro cuore, indipendentemente da schemi prefissati.
Una grazia persuasiva. Ci sono alcuni brani molto belli che Lorenzo Cappelletti ha tratto dal De gratia Christi et de peccato originali dove Agostino critica e condanna Pelagio perché egli insiste soltanto sulla grazia come illuminazione dell’intelletto, cioè sulla grazia mediante l’insegnamento della dottrina, quasi che il cristianesimo coincida solamente con l’esposizione di una dottrina, morale o non morale che sia, quasi che si possa diventare cristiani semplicemente per l’apprendimento di una dottrina. E Agostino invece insiste su una grazia che tocca oltre la dottrina anche i cuori. Quindi una grazia persuasiva che richiede una testimonianza reale.
Da ultimo, e concludo, c’è l’ecumenismo, l’ultimo termine che affiora come motivo di interesse e di attualità di Agostino. Alcuni brani molto belli alla fine del volume tratti da più opere di Agostino insistono proprio sul fatto che non bisogna mai abbandonare l’intuizione di verità dell’altro per criticarne l’errore. La critica dell’errore non deve impedire di vedere quanto di vero c’è, e bisogna separare verità ed errore in modo che l’altro sia portato al riconoscimento della verità piena. Questo senso ecumenico e universale è anch’esso un tema di grande interesse e attualità nel contesto contemporaneo. Grazie.

NELLO CIPRIANI:

Vorrei innanzitutto rivolgere il mio plauso e la mia gratitudine alla direzione di 30Giorni per aver raccolto queste interviste e saggi sul pensiero di sant’Agostino, mostrandone l’attualità in punti che ancora oggi sono di grande interesse per i cristiani, per i credenti. Mi riferisco al tema del rapporto tra Stato e Chiesa, dell’atteggiamento del cristiano di fronte alle leggi dello Stato; mi riferisco al problema della grazia e anche a quello dell’ecumenismo. Ma in questo mio brevissimo intervento, vorrei richiamare l’attenzione su un altro tema al quale non è stato fatto cenno. Ossia a quella ricostruzione del pensiero agostiniano, ancora dominante, che vede una evoluzione iniziale da una posizione fortemente platonizzante a un’altra della maturità propriamente cristiana. Nel saggio intitolato Una via adeguata ai sensi di Massimo Borghesi, si parla appunto di un iniziale idealismo cristiano di Agostino che poi diventa invece un realismo cristiano. Sotto questi aspetti viene inclusa la comprensione da parte di Agostino di Cristo, dell’uomo, della Chiesa in senso molto diverso. Ecco, io vorrei soltanto accennare che le mie ricerche più recenti mi stanno invece portando a convincermi che accentuare questa evoluzione non rispetta completamente il pensiero di sant’Agostino. Voglio dire cioè che fin dalle prime opere di Agostino – anche se il platonismo è evidente a tutti, proprio per il suo proposito esplicito di fare filosofia ispirandosi ai grandi temi del neoplatonismo (Dio e l’anima) –, nelle pieghe dei suoi dialoghi, si nascondono pagine in cui la fede cristiana appare molto più realistica per quanto riguarda la persona di Cristo uomo-Dio, per quanto riguarda il fatto che essa non è soltanto un atteggiamento propedeutico alla contemplazione, ma è una dimensione di vita nuova in Cristo. La comprensione di Cristo stesso che appare da queste pagine – che purtroppo gli studiosi non hanno valutato nel loro pieno valore – sta emergendo dalle mie ricerche molto chiaramente. E questo è stato possibile perché, applicando metodi filologici molto più accurati, si possono individuare le fonti cristiane sconosciute a tanti studiosi delle prime opere di sant’Agostino. In particolare mi riferisco all’influsso di Mario Vittorino. Non soltanto il Mario Vittorino dei trattati antiariani, ma anche all’esegeta delle lettere di san Paolo. Ed è proprio l’esegesi delle lettere paoline a consentire ad Agostino, ancora non battezzato, di esprimere una fede in Cristo molto più matura di quella che gli viene di solito attribuita. Grazie.

CLAUDIO PETRUCCIOLI:

Ringrazio molto per l’invito che mi è stato rivolto, e devo ringraziare ovviamente – anche se mi mette in una certa difficoltà per l’insistenza a fare questo piccolissimo intervento stasera – l’amico Andreotti, il direttore della rivista. Credo che questa insistenza sia dovuta al fatto che io posso dire qualcosa di sincero, non so usare altra espressione, sul nucleo dei problemi che, avete sentito, sono trattati in questo libro che fa riferimento ad Agostino e che trae di lì la sua forza. Io volentieri rendo questa testimonianza perché l’avvicinarsi alle pagine di Agostino, o che parlano di Agostino, non dico obbliga, ma consente, cosa assai rara, di pensare i fondamenti. Questo è il motivo che credo valga per tutti. A me è molto chiaro, e lo trovo convincente, l’intento dei curatori – credo sia anche filologicamente fondato, ma non mi permetto di dare opinioni in proposito – ossia la lettura per cui le due città di Agostino, la città di Dio e la città del mondo, si tengono e si giustificano, non sono separabili, come è stato detto in modo molto preciso dal professor Borghesi. Mi è molto chiaro che si sostenga che la città di Dio [squilla il cellulare di Petruccioli] (scusate, questo è un intervento diabolico, per l’appunto), che la città di Dio, la grazia, quella dimensione sia indispensabile per poter vivere – e poter vivere in modo libero – la città del mondo e affrontare il carattere diabolico del potere e la sua contraddizione ineliminabile. Mi sembra un argomentare forte che ha una notevole carica polemica rispetto anche a una lettura – che pure esiste nel pensiero cristiano – che, invece, si fonda sulla possibilità di rendere buono il potere con la grazia: la citazione che viene fatta di Maritain, di von Balthasar come protagonisti, interpreti di questa visione introduce a un impegno molto rilevante nella riflessione del pensiero politico e non solo del pensiero politico del credente, del cristiano. Ma io non voglio evidentemente inoltrarmi in questo. La mia riflessione è questa: se è necessaria, indispensabile, la grazia – scusatemi se mi esprimo in modo molto semplificato – per poter praticare, senza diventarne schiavi, il potere, chi non dispone della grazia, come può fare? Mi sembra che questa visione molto forte si fondi su un’antropologia negativa. Per il non credente mi sembra che la possibilità di praticare il potere senza arrendersi al potere, senza sottomettersi a esso, non possa fare a meno di fondarsi invece su una antropologia positiva. Sulla possibilità, magari difficilissima, ma non esclusa, di poter praticare, vivere nella città del mondo perché si può avere una certa dose di fiducia anche a prescindere dalla grazia. Certo, se la grazia la si incontra, la si merita, ben venga. Ma c’è anche chi vi parla, per esempio, che la grazia almeno finora non l’ha avuta, non l’ha meritata, non è stato capace di riconoscerla, dite come volete. Ma io ci sono, ci siamo. Allora, questa è la domanda che mi viene. D’altro canto, un’antropologia negativa per chi non disponga del dono della grazia può introdurre a un’interpretazione demiurgica del potere, a un innalzamento del potere al posto di Dio. Ha perfettamente ragione il professor Esposito quando dice: «Il vero male, quello radicale che nasce dalla libera scelta (il vero male nasce dalla libertà di sceglierlo, e visto che la libertà è una categoria afferente al politico, anche il male, quello radicale, è un problema che interessa il politico), almeno quello che storicamente è stato tale, non si dà mai come il contrario del bene, ma è quello che si autodefinisce come il bene assoluto, che interiorizza la legge. Quindi il vero male è sempre […] imitazione del bene. Il vero male, quello radicale, non dice mai di voler distruggere il bene, dice sempre di volerlo incarnare» e realizzare pienamente. Allora la riflessione che mi è venuto di fare e che vi sottopongo è questa: per usare l’espressione – ancora qui citata – di Niebuhr a proposito di Agostino, «né illusi né cinici» (poiché questo programma «né illusi né cinici» è un programma che io trovo molto vicino, molto umano per quello che riesco a desiderare), mi domando: si può esserlo senza la grazia? Almeno in una certa dimensione? Me lo domando io, sono io che devo dar risposta, evidentemente. Si può tentare anche senza grazia di vivere nel miglior modo possibile? E certo qui la domanda è a carico di chi la pone perché la risposta di chi dispone della grazia fortunatamente è una risposta coerente e forte. E mi viene da dire che, certo, qui c’è una norma: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, “fai agli altri quello che nelle loro condizioni tu ti aspetteresti di ottenere da loro”, che è un insieme, mi rendo conto, di altruismo ed egoismo; direi, in modo neutro, è un’idea mutualistica del vivere (Dilthey, insomma, per essere molto rapido): è il massimo di risposta che, modestamente, alla domanda che io mi son posto sono in grado di dare. Ma una risposta che parte tuttavia dalla fondamentale domanda che Agostino pone e che non può essere evitata.

GIULIO ANDREOTTI:

Io rinnovo al cardinale Ratzinger e a tutti loro, agli ambasciatori, ai professori, a tutti, il ringraziamento. Noi nel nostro sforzo mensile ci ripromettiamo sempre di riuscire – non so se poi lo realizziamo – a riflettere e a far riflettere su alcune cose che passano e su alcune cose che invece sono lì e illuminano. Io sono molto grato anche al collega Petruccioli perché, lo vedrete nella conclusione della sua intervista riportata nel libro, ci dà un forte richiamo, cioè: chi ha avuto questo dono della grazia e, possiamo dire, il dono della fede, deve cercare – senza mai forzare è ovvio, in questo mi pare che ci troviamo tutti d’accordo – di far sì che gli altri possano avere l’opportunità di approfondire e l’opportunità di avere questo dono. E, d’altra parte, essendo un dono, nessuno di noi se ne può gloriare, possiamo soltanto ringraziare Dio.

http://www.30giorni.it/articoli_id_8816_l1.htm