venerdì 18 marzo 2011

Il ministero sacerdotale. Fondamento e centro del sacerdozio cristiano è la croce (Articolo di Joseph Ratzinger pubblicato su «L'Osservatore Romano» del 28 maggio 1970)

A proposito del Memorandum del 9 febbraio 1970. Quando i teologi tedeschi discutevano sul celibato (Osservatore Romano)

In un articolo di Joseph Ratzinger pubblicato su «L'Osservatore Romano» del 28 maggio 1970

Il ministero sacerdotale

Fondamento e centro del sacerdozio cristiano è la croce

Nella primavera del 1970 Joseph Ratzinger, all'epoca professore di teologia dogmatica all'università di Ratisbona, membro della Commissione teologica internazionale e consultore della Commissione dottrinale della Conferenza episcopale tedesca, pubblicò su «L'Osservatore Romano» del 28 maggio un articolo sul ministero sacerdotale che presentiamo integralmente.

La questione del ministero sacerdotale nella Chiesa è diventata improvvisamente un problema scottante. Esiste legittimamente il sacerdozio sacramentale? O si fonda soltanto su un malinteso, su una ricaduta nelle strutture precristiane? Non dovrebbe la Chiesa, propriamente parlando, essere costituita carismaticamente? E la questione circa l'esistenza e il numero degli uffici, non dovrebbe essere risolta fondandosi soltanto sulle esigenze sociologiche?
Molte cose sembrano giustificare queste domande: le grandi lettere paoline si indirizzano direttamente alle comunità; trattano dei carismi; ma sembrano ignorare i soggetti dell'ufficio sacerdotale propriamente detto.
La lettera agli Ebrei parla con insistenza della singolarità del sacerdozio di Gesù Cristo, che sembra escludere definitivamente ogni sacerdozio particolare nella Chiesa della nuova Alleanza; infine in nessun posto del Nuovo Testamento vengono designati i soggetti dell'ufficio nella Chiesa con il nome sacerdos. Si può dunque capire che nel momento stesso in cui si inizia a leggere il Nuovo Testamento prescindendo dal commento vivente della storia della Chiesa, nella sua genuinità si accende una inquietudine e la questione circa la legittimità e il senso del servizio sacerdotale nella Chiesa si fa addirittura acutamente dolorosa.
Si potrebbe subito obiettare che non ha senso leggere il Nuovo Testamento senza tenere conto della Chiesa vivente nella quale esso è cresciuto e dalla quale venne riconosciuto come norma lungo una non sempre facile e contestata storia. Di qui sorgerebbe il complesso problema di come sia possibile intendere la Bibbia in senso esatto e quali presupposti scientifici e spirituali a tale scopo si richiedono.
Ma questo ampio contesto può essere qui soltanto accennato, per rendersi conto che una lettura della Bibbia senza alcun presupposto (com'è del resto la lettura di qualsiasi testo storico) non può esistere. Le ricostruzioni del passato che pretendono di essere genuine, non rispecchiano mai soltanto quello che era, ma sono sempre anche l'espressione delle idee e dei desideri di una determinata epoca. Ad ogni modo, la crisi contemporanea dovrebbe spronarci ad ascoltare con una vigilanza nuova il messaggio delle origini per lasciarci da esso di nuovo fecondare e guidare.
Cosa dice realmente il Nuovo Testamento sulla questione del sacerdozio? Esistono su questo tema innumerevoli studi in svariate direzioni; e qui, nello spazio di un breve articolo, non si può far altro che tentare di accennare ad alcuni punti cardinali.
Partiamo dalla figura del Sommo sacerdote che viene presentato come argomento principale del superamento del carattere di ufficio e perciò di puro carisma in Cristo. In tali affermazioni viene trascurato lo stesso elemento decisivo, cioè la stessa figura dell'apostolo. Certo, Paolo non si mette nella linea dei sacerdoti del tempio antico (cosa che del resto sarebbe stata un controsenso, dal momento che questo tempio e i suoi sacerdoti ancora sussistevano ed era evidente che Paolo, come anche gli altri apostoli, non appartenevano a questo ordine).
Ma egli non si considera neppure soltanto come un rabbi cristiano, come soltanto un catechista di una sinagoga senza culto. Anzi, egli si considera come apostolo derivante da Gesù il Signore, che lo ha mandato a preparare il mondo pagano come un'offerta vivente a Dio (cfr. Romani, 15, 16). Così si può dire anche qui: il vecchio è passato, ma è divenuto nuovo (2 Corinzi, 5, 17).
Paolo non è sacerdote nel senso del tempio, ma è apostolo del Signore risuscitato. Egli, nelle discussioni con i suoi avversari nella seconda lettera ai Corinti ha spiegato abbondantemente quali conseguenze da ciò derivino per lui. In quella lettera egli oppone l'apostolato all'ufficio di Mosè e lo definisce attraverso il confronto con il compito di Mosè. L'ufficio dell'apostolo appare qui come la sublimazione e il superamento -- a opera dello Spirito -- del vecchio di cui Mosè era stato il mediatore (2 Corinzi, 3, 7-9).
L'apostolato allora, derivante attraverso l'asse di Cristo, viene spiegato partendo da Mosè; il servizio apostolico viene spiegato come l'antitesi pneumatica al servizio mosaico, resa possibile dal Risuscitato.
In quel luogo neotestamentario, per la prima volta viene svolta nell'ambito della primigenia liturgia l'idea che la comunità di Gesù è un ordine nuovo, accanto a quello di Mosè e che per conseguenza possiede anche una nuova diaconia che da una parte corrisponde a quella di Mosè e d'altra parte è anche profondamente diversa da essa.
Paolo riprende queste idee ancora una volta nel capitolo v della lettera: definendo l'ufficio apostolico come «servizio di riconciliazione» (5, 18), ci accosta in modo sorprendente al servizio del Sommo Sacerdote dell'Antico Testamento, il cui compito più nobile era costituito dalla liturgia della festa della riconciliazione; anche in questo contesto l'espressione pneumatico-cristologica è certamente non chiara: essa è nello stesso tempo antitesi e parallelo.
In questo luogo all'immagine del servizio apostolico viene anche aggiunto il compito di mediatore di Mosè: «Siamo allora mandati al posto di Cristo, uguale a Dio, resuscitato per noi. A posto di Cristo vi preghiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (5, 20). Qui brilla chiaramente l'immagine di un Mosè che porta al popolo la voce di Dio, che conquista il popolo per Dio e Dio per il popolo, vuole mediare tra l'uno e l'altro ed è pronto a lasciarsi consumare per costituire il contatto tra i due.
Questo tratto del resto ricorre spesso in Paolo, specie là dove con particolare chiarezza dice: «e volentieri voglio consumarmi e lasciarmi consumare per voi» (13, 15). Nello stesso tempo diventa più chiara anche la figura di Mosè, che rimanda al Signore stesso, il quale sulla croce si lasciò veramente consumare per gli uomini e proprio in questo divenne sacerdote e mediatore dell'umanità: la spiegazione dell'ufficio apostolico partendo dall'Antico Testamento comprende la sua giustificazione cristologica, perché per Paolo Il Vecchio Testamento divenne il messaggero di Cristo.
Di fronte a tali testi possiamo oggi difficilmente negare che presso Paolo (e similmente presso i sinottici, per esempio Marco, 3, 13-19) esista una teologia dell'apostolato ricca di contenuti poiché vi risulta un ufficio cristiano costituito cristologicamente.
Ma ora sorge la domanda: tutto questo dice qualcosa sul servizio di coloro che nel Nuovo Testamento vengono chiamati tra l'altro «presbiteri», o si restringe solo al piccolo gruppo di coloro che erano direttamente chiamati come apostoli dal Signore? È poi possibile la trasposizione di queste concezioni alle Chiese locali, dalle quali si è sviluppato il sacerdozio cristiano? Tali concezioni non erano forse presso Paolo concepite come profane e soltanto in seguito quando ciò non andava, vennero riconosciute come un carisma per principio uguale agli altri carismi? Ci si dovrebbe ora domandare chiaramente che cosa sia un «carisma»: cosa ne intenda in realtà Paolo. Mancando qui lo spazio per la analisi di questa questione difficile ci accontentiamo di un richiamo a essa e nel resto ci rivolgiamo ad alcuni testi che riguardano la nostra problematica.
Non è infatti difficile dimostrare che già lo stesso Nuovo Testamento dimostra l'unione tra l'apostolato e il presbiterato, poiché questo è spiegato come compreso nella struttura dell'apostolato: così questa struttura è presentata come una realtà permanente nella Chiesa. Già prima delle lettere pastorali che sono completamente e integralmente determinate da questo nesso; questa unione appare negli scritti di Luca e nelle lettere cattoliche.
Un testo fondamentale è il discorso di commiato di san Paolo ai presbiteri di Efeso (Atti, 20, 18-35). Questo discorso nel suo insieme prospetta il pensiero della successione apostolica; l'idea principale è addirittura nell'affermazione: l'ufficio e il compito di Paolo vengono dopo la sua partenza trasferiti nelle mani del presbiteri. In ciò vi sono due tratti particolarmente importanti: l'ufficio dei presbiteri viene inteso come patrimonio (dono) dello Spirito Santo; non è stato Paolo a istituire i presbiteri, bensì lo Pneuma (20, 28).
Il servizio dei presbiteri viene poi reso chiaro tramite l'immagine del pastore e del gregge e in ciò viene inserita quella grande tradizione di Israele che da una parte presenta Jahvè come l'unico pastore del popolo, d'altra parte però chiama pastori anche re e sacerdoti i quali naturalmente devono essere misurati secondo la relazione di servizio e di fedeltà verso Jahvè. Dovrebbe essere lecito ammettere che nel concetto del pastore sia implicita anche la relazione a Cristo, anche se ciò non appare chiaramente nel testo.
Questo contesto diventa chiaro nel secondo passo di cui occorre qui parlare. Nella 1 Pietro, 5, 1-4, l'immagine del pastore che ci riappare, rimanda al 2, 25, a quel testo impressionante che chiama Cristo stesso «pastore e vescovo» delle nostre anime. Importante allo «specchio dei presbiteri» (ovvero: esame di coscienza per i presbiteri) del 5, 1-4 è però prima di tutto l'autodefinizione dell'apostolo come «con-presbitero» con i presbiteri.
La questione se questo testo provenga veramente da Pietro o no, può, per quanto riguarda la nostra speculazione, essere lasciata del tutto intatta. In ogni caso, infatti, resta sicuro che in questa lettera l'apostolo appare come colui che parla e che attraverso la sua determinazione come «con-presbitero» i due uffici dell'apostolato e del presbiterato vengono identificati a vicenda. Attraverso questa formula l'ufficio dell'apostolato viene per principio spiegato come sinonimo dei presbiterato.
Nell'ambito nel Nuovo Testamento, mi sembra questa la più forte unione dei due concetti, che realmente include la trasposizione della teologia dell'apostolato in quella del presbiterato. Chiunque, libero da pregiudizi, riesca a comprendere questi nessi, giungerà -- seguendo la dinamica intrinseca del Nuovo Testamento -- a dare alla domanda da cui siamo partiti una risposta univoca: il sacerdozio della Chiesa non è contrario alla testimonianza del Nuovo Testamento, ma è fermamente ancorato in essa. Dal punto di vista della storia delle religioni, ciò presenta naturalmente qualcosa di completamente nuovo: non proviene dal sacerdozio del tempio dell'Antica Alleanza né dalla idea vetero-testamentaria del «sacerdozio regale», che nella prima lettera di Pietro viene evidentemente applicata a tutto il popolo; proviene piuttosto da un nesso messianico-apostolico: la missione nella continuazione della missione di Gesù Cristo.
Nessuno contesterà che nella storia della Chiesa si sono sempre alternati segni di oscuramento e di spostamento degli accenti, ma questo non mette in questione il sacerdozio come tale, bensì noi ai quali fu trasmesso come compito. Infatti siamo noi così sicuri che l'oscurità esisteva soltanto negli altri tempi? Oppure non è piuttosto così che ogni tempo deve accettare di nuovo il dono del Signore e sarà in grado di conservarlo soltanto se lo comprenderà attraverso il suo chiedere, il suo vivere, il suo patire?
La forza purificatrice dell'investigazione storica è importante e può certamente aiutare la nostra generazione a capire meglio il compito primordiale. Ma essa non basta, perché il pensare ha la sua sede nella vita e da essa riceve i suoi presupposti e i suoi limiti. Soltanto quello che viene vissuto e sofferto può essere pensato. E soltanto se accettiamo sempre di nuovo in questa totalità la consegna del Signore, il nostro pensare può trovare la strada.
Il sacerdozio di Cristo si è adempiuto -- secondo la profonda visione della lettera agli Ebrei -- sulla croce; nella crocifissione è stato manifestato il passaggio tra Iddio e l'uomo. La croce è e rimane il fondamento e il continuo centro del sacerdozio cristiano che può trovare il suo compimento soltanto nella disponibilità del proprio io per il Signore e per gli uomini. In ciò sta il peso della consegna lasciata da Cristo alla sua Chiesa.
Per ciò vale quello che Paolo sottolineava con tanta insistenza. Il sacerdozio del Nuovo Testamento non è un servizio della morte, bensì il servizio dello Spirito, della giustizia nella gloria (2 Corinzi, 3, 7-9). Infatti proprio il duplice spogliamento di sé, cui abbiamo testé accennato, messo in atto dall'apostolo di Gesù Cristo, lo fa libero e gli fa esperimentare la presenza della Risurrezione.
Tutto questo suona inauditamente pretenzioso e lo è anche. Forse per questo in realtà siamo caduti oggi in tante incertezze sull'esistenza e sul senso del sacerdozio; perché ci appare troppo alta la pretesa da esso posta. Ma la nostra insufficienza non può costituire la misura delle realtà cristiane. La misura è Lui -- il Signore stesso. Di questo è teste ancora una volta Paolo, prima persecutore del Cristo, poi l'ultimo tra gli apostoli (1 Corinzi, 15, 8), il quale mise a disposizione della forza di Dio la propria debolezza e per questo divenne il testimone più forte di quella grazia il cui annuncio e la cui ripresentazione è e resterà il compito più alto dell'ufficio sacerdotale di tutti i tempi.

(©L'Osservatore Romano 19 marzo 2011)